Cosa deve cambiare nell’attuale
situazione in cui sembra predominare
l’incertezza e l’insicurezza
nel mercato del lavoro?
Il mercato del lavoro può essere
configurato come una torta costituita
di ore di lavoro. Se guardiamo al nostro
Paese ci accorgiamo che quando eravamo solo
30 milioni erano disponibili 70 miliardi di ore,
oggi che siamo 60 milioni la torta è di 40 miliardi
di ore. Nei tempi lunghi, in altri termini, la torta
diminuisce mentre aumenta il numero di commensali.
Per compensare questo squilibrio fra domanda
e offerta cosa deve fare una brava casalinga?
Diminuire le porzioni, altrimenti lasciandole invariate
alcuni si soddisfano mentre altri rimangono
completamente digiuni. A questo proposito
compariamo il comportamento di un Paese a noi
molto vicino come la Germania.
Quest’ultima è la prima produttrice industriale
in Europa, noi i secondi. Cosa è accaduto in
Germania come conseguenza dell’innovazione
tecnologica?
Un decisa riduzione dell’orario di lavoro: mediamente
un tedesco lavora 1400 ore l’anno;
per gli operai metallurgici – dal primo gennaio
di quest’anno - addirittura siamo arrivati a 1300,
per cui la settimana lavorativa di un metallurgico
è divenuta di 28 ore. Ad ogni innovazione tecnologica
l’orario di lavoro è stato abbassato senza
riduzione del salario, anzi: due mesi fa è stato
aumentato del 4,2%. In Italia si lavorano mediamente
1800 ore, cioè 400 in più dei tedeschi.
Con quali risultati? Che noi abbiamo un tasso di
disoccupazione dell’11%, mentre in Germania
siamo al 4%; da noi su 100 laureati solo 52 hanno
trovato lavoro dopo tre anni, mentre in Germania
sono 93. Come dovrebbe risultare evidente il
primo problema è costituito dalla redistribuzione
delle ore di lavoro. Che senso ha conservare ancora
le stesse 40 ore di 100 anni fa? Produciamo
macchine che fanno lavori finora affidati agli uomini
in tempi più veloci e più precisi. Ma per fare
questa scelta – diminuire l’orario di lavoro mantenendo
lo stesso stipendio – occorre che l’economia
cresca. Questa è stata l’illusione di certi
economisti che sull’onda del neoliberismo hanno
decretato che la crescita si sarebbe prodotta
automaticamente riducendo le tasse ai ricchi.
Perché così facendo i ricchi avrebbero investito
di più e la ricchezza sarebbe "sgocciolata" anche
sui poveri. La realtà che è sotto i nostri occhi, al
contrario, mostra che – a differenza di dieci anni
fa – oggi la maggior parte del 3,5% di ricchezza
in più che è stata prodotta a livello mondiale non
è “sgocciolata” sui miliardi di poveri che abitano
il mondo, ma solo su 1200 persone. Quindi è
chiaro che noi sappiamo produrre ricchezza ma
non la sappiamo distribuire. Una prima soluzione
a questo problema sarebbe quella di ridurre
l’orario di lavoro in proporzione inversa rispetto
alle continue innovazioni tecnologiche: tanto più
lavoro viene effettuato dalle macchine tanto più
breve dovrebbe essere il tempo di lavoro degli
uomini. Con la prossima "ondata" dell’intelligenza
articiale la contraddizione sopra segnalata si
farà ancora più acuta con – tanto per fare degli
esempio - il risultato seguente: avremo medici
che lavorano in ospedale 10 ore al giorno ed altri
medici completamente disoccupati; padri che
sono impegnati 8,9,10 ore al giorno e figli senza
occupazione. Il fatto è che nei Paesi cattolici – non
solo Italia, ma anche in Brasile, Spagna, Portogallo,
Argentina, Cile – c’è l’abitudine – a differenza
dei Paesi di tradizione protestante – all’overtime.
Tanto per intenderci: un quadro o un manager
italiano alle 5 del pomeriggio, mentre il suo collega
tedesco lascia il posto di lavoro e se ne va
a casa, rimane a lavorare per altre ore, peraltro
non pagate. Non è difficile capire le ragioni di
questo comportamento, perché sicuramente
non è per amore del lavoro. Le ragioni risiedono
nella tradizione familistica di derivazione cattolica
che impedisce ancora il pieno impiego delle
donne, per cui mentre l’uomo rimane al lavoro,
la donna è a casa per preparare la cena, accudire
i gli, ecc. Secondo i miei calcoli se si evitasse
l’overtime ci sarebbero almeno 70/80 mila posti
di lavoro in più. Quindi diciamo che l’overtime
non è una dimostrazione di nobiltà d’animo ma
è una criminalità vera e propria perché signica
rubare posti di lavoro regalando ai datori di lavoro
- non si capisce perché – tempi sottratti alla vita
quotidiana delle persone. L’aviazione tedesca ha
risolto il problema dell’overtime rendendo flessibile
il lavoro, ma soprattutto riducendo l’orario di
lavoro: lavorano – rispetto agli italiani – il 20% di
ore in meno ma con il 20% in più di produttività e
guadagnando il 20% in più.
Quale la ragione?
Consiste nel fatto che i lavoratori tedeschi, a
differenza di quelli italiani, siedono nei consigli
d’amministrazione delle imprese, quindi partecipando
attivamente alla definizione delle strategie
organizzative e imprenditoriali.
Per questo da noi tutto diviene esclusivo lavoro
dei managers, anche se – dobbiamo notare - abbiamo
i managers meno formati d’Europa. Un
tempo – non troppo lontano in verità – ogni grande
azienda (come la FIAT, la Telecom, ecc.) aveva
la sua scuola, peraltro tutte di grande qualità. In
pochi anni sono state tutte chiuse perché "costavano
troppo". Non si è capito che la formazione
non è un costo ma un investimento. Di fronte a
queste dismissioni mi sarei aspettato una difesa
quantomeno “corporativa” da parte del personale,
invece mi sono ritrovato – come presidente
della scuola di formazione Life insieme a pochi
altri a contrastare lo scempio che si stava compiendo.
Oggi un manager è lasciato solo con se
stesso. Ogni tanto si fanno delle convention : si
riuniscono per un giorno duemila persone, il manager
fa il suo show, e tutto rimane come prima.
Concludendo: in primo luogo occorre ridurre
l’orario di lavoro e incrementare la produttività.
Invece si è proceduto con misure che hanno
condotto all’attuale situazione: anziché ridurre
l’orario di lavoro si è fatta la legge Biagi, poi si
è eliminato l’IRAP, poi si è ridotto il cuneo fiscale
per i privati, poi si è abolito l’articolo 18, poi
si è fatto tutta la serie di leggi del Jobs Act con
le quali sono state date alle aziende decine di
miliardi per assumere persone di cui avevano
sempre meno bisogno perché con il progresso
tecnologico se oggi un lavoratore o imprenditore
guadagna più soldi non è che compra operai,
si compra robot ovviamente. Le conseguenze di
queste azioni sono sotto gli occhi di tutti: miliardi
dati alle aziende, migliaia di ore di scioperi, una
conflittualità che è durata praticamente 15 anni.
E tutto per aumentare l’occupazione meno di un
punto: dal 57,4 al 58!
Una insipienza iniziale, quasi un’azione criminale,
perché la bassa produttività implorerà sempre
dei sussidi. Adesso le aziende stanno cercando
di appropriarsi anche di una parte del reddito di
cittadinanza! Il che significa farsi pagare completamente
gli investimenti dallo Stato senza essere
aziende pubbliche. In questo c’è una responsabilità
anche dei colleghi che hanno tenuto bordone
ad una politica economica fallimentare.
Cosa può dirci del "regalo" del personal computer
, messo a punto dalla Olivetti, dai governi
italiani dell’epoca agli americani?
Potremmo definirlo "effetto ignoranza" : non
capirono che il futuro era l’informatica, come
adesso che abbiamo trasformato due fenomeni
positivi come la globalizzazione e il progresso
tecnologico in due grandi sciagure. Insomma
non ci vogliamo rendere conto che le trasformazioni
del lavoro sono funzione delle tecnologie
che nel tempo siamo riusciti a costruire. Basterebbe,
a questo proposito, ripercorrere la storia
per renderci conto che solamente nei secoli XVIII
e XIX il lavoro diviene un valore. Fino ad allora il
lavoro era configurato solo come lavoro manuale,
fatica fisica che sottraeva (si ricordi Cicerone)
tempo all’otium creativo. È Adam Smith che ribalta
completamente la concezione del lavoro
affermando che il lavoro è la misura del valore di
ogni cosa. Con Marx si va ancora oltre perché il
lavoro diventa l’essenza dell’uomo: l’uomo è ciò
che fa perché il lavoro è praticamente la costruzione
della società e la costruzione del pianeta.
Essendo essenza dell’uomo non può essere
alienata perché ciò significherebbe vendere la
sua essenza; da quel momento in poi il lavoro
diventa un fatto di grande dignità. Per i cattolici
era stato sempre importante perché con il lavoro
si espiava il "peccato originario". Nel 1891
con la Rerum Novarum Leone XIII confermerà la
concezione del lavoro come "espiazione". Con
il XX secolo si entra in quello che Aris Accornero
ha definito "il secolo del lavoro" perché mai,
prima di allora, il lavoro ha conosciuto una simile
apoteosi. Scrivere sul proprio biglietto da visita
la propria professione è l’indicatore più evidente
delle trasformazioni cui sopra si è fatto riferimento.
Senza saperlo, in qualche modo si è marxisti
quando sul biglietto da visita si scrive sociologo
o si scrive avvocato. Significa che la mia essenza
è quello che io faccio e naturalmente il lavoro è
stato tutto. Perché fino all’avvento delle macchine
di fine Settecento quasi tutto quello che esiste è
stato fatto con le mani. San Pietro, quella montagna
di pietra che si vede dalla finestra è stato
fatto con le mani. È alla fine del Settecento che
invece iniziano ad essere prodotte macchine
meccaniche e poi qualche decennio dopo - un
secolo dopo- macchine elettromeccaniche. E le
macchine, man mano che arrivano, spossessano
l’uomo del lavoro fisico, ripetitivo, pericoloso ,
del lavoro noioso perché le attività che vengono
delegati alla macchina sono quelle che l’uomo
non vuole fare perché appunto pericolose e noiose.
Man mano che le macchine progrediscono
spossessano l’uomo di attività sempre più sofisticate. Con le macchine digitali naturalmente
comincia a spossessare l’uomo non solo delle
attività fisiche ma anche delle attività intellettuali.