Giuliano Bruni

Intervista a Domenico De Masi di Andrea Spini e Giuliano Bruni

Intervista a Domenico De Masi

 

Cosa deve cambiare nell’attuale situazione in cui sembra predominare l’incertezza e l’insicurezza nel mercato del lavoro?
Il mercato del lavoro può essere configurato come una torta costituita di ore di lavoro. Se guardiamo al nostro Paese ci accorgiamo che quando eravamo solo 30 milioni erano disponibili 70 miliardi di ore, oggi che siamo 60 milioni la torta è di 40 miliardi di ore. Nei tempi lunghi, in altri termini, la torta diminuisce mentre aumenta il numero di commensali. Per compensare questo squilibrio fra domanda e offerta cosa deve fare una brava casalinga? Diminuire le porzioni, altrimenti lasciandole invariate alcuni si soddisfano mentre altri rimangono completamente digiuni. A questo proposito compariamo il comportamento di un Paese a noi molto vicino come la Germania.
Quest’ultima è la prima produttrice industriale in Europa, noi i secondi. Cosa è accaduto in Germania come conseguenza dell’innovazione tecnologica?
Un decisa riduzione dell’orario di lavoro: mediamente un tedesco lavora 1400 ore l’anno; per gli operai metallurgici – dal primo gennaio di quest’anno - addirittura siamo arrivati a 1300, per cui la settimana lavorativa di un metallurgico è divenuta di 28 ore. Ad ogni innovazione tecnologica l’orario di lavoro è stato abbassato senza riduzione del salario, anzi: due mesi fa è stato aumentato del 4,2%. In Italia si lavorano mediamente 1800 ore, cioè 400 in più dei tedeschi. Con quali risultati? Che noi abbiamo un tasso di disoccupazione dell’11%, mentre in Germania siamo al 4%; da noi su 100 laureati solo 52 hanno trovato lavoro dopo tre anni, mentre in Germania sono 93. Come dovrebbe risultare evidente il primo problema è costituito dalla redistribuzione delle ore di lavoro. Che senso ha conservare ancora le stesse 40 ore di 100 anni fa? Produciamo macchine che fanno lavori finora affidati agli uomini in tempi più veloci e più precisi. Ma per fare questa scelta – diminuire l’orario di lavoro mantenendo lo stesso stipendio – occorre che l’economia cresca. Questa è stata l’illusione di certi economisti che sull’onda del neoliberismo hanno decretato che la crescita si sarebbe prodotta automaticamente riducendo le tasse ai ricchi. Perché così facendo i ricchi avrebbero investito di più e la ricchezza sarebbe "sgocciolata" anche sui poveri. La realtà che è sotto i nostri occhi, al contrario, mostra che – a differenza di dieci anni fa – oggi la maggior parte del 3,5% di ricchezza in più che è stata prodotta a livello mondiale non è “sgocciolata” sui miliardi di poveri che abitano il mondo, ma solo su 1200 persone. Quindi è chiaro che noi sappiamo produrre ricchezza ma non la sappiamo distribuire. Una prima soluzione a questo problema sarebbe quella di ridurre l’orario di lavoro in proporzione inversa rispetto alle continue innovazioni tecnologiche: tanto più lavoro viene effettuato dalle macchine tanto più breve dovrebbe essere il tempo di lavoro degli uomini. Con la prossima "ondata" dell’intelligenza arti􀆓ciale la contraddizione sopra segnalata si farà ancora più acuta con – tanto per fare degli esempio - il risultato seguente: avremo medici che lavorano in ospedale 10 ore al giorno ed altri medici completamente disoccupati; padri che sono impegnati 8,9,10 ore al giorno e figli senza occupazione. Il fatto è che nei Paesi cattolici – non solo Italia, ma anche in Brasile, Spagna, Portogallo, Argentina, Cile – c’è l’abitudine – a differenza dei Paesi di tradizione protestante – all’overtime. Tanto per intenderci: un quadro o un manager italiano alle 5 del pomeriggio, mentre il suo collega tedesco lascia il posto di lavoro e se ne va a casa, rimane a lavorare per altre ore, peraltro non pagate. Non è difficile capire le ragioni di questo comportamento, perché sicuramente non è per amore del lavoro. Le ragioni risiedono nella tradizione familistica di derivazione cattolica che impedisce ancora il pieno impiego delle donne, per cui mentre l’uomo rimane al lavoro, la donna è a casa per preparare la cena, accudire i 􀆓gli, ecc. Secondo i miei calcoli se si evitasse l’overtime ci sarebbero almeno 70/80 mila posti di lavoro in più. Quindi diciamo che l’overtime non è una dimostrazione di nobiltà d’animo ma è una criminalità vera e propria perché signi􀆓ca rubare posti di lavoro regalando ai datori di lavoro - non si capisce perché – tempi sottratti alla vita quotidiana delle persone. L’aviazione tedesca ha risolto il problema dell’overtime rendendo flessibile il lavoro, ma soprattutto riducendo l’orario di lavoro: lavorano – rispetto agli italiani – il 20% di ore in meno ma con il 20% in più di produttività e guadagnando il 20% in più.
Quale la ragione?
Consiste nel fatto che i lavoratori tedeschi, a differenza di quelli italiani, siedono nei consigli d’amministrazione delle imprese, quindi partecipando attivamente alla definizione delle strategie organizzative e imprenditoriali. Per questo da noi tutto diviene esclusivo lavoro dei managers, anche se – dobbiamo notare - abbiamo i managers meno formati d’Europa. Un tempo – non troppo lontano in verità – ogni grande azienda (come la FIAT, la Telecom, ecc.) aveva la sua scuola, peraltro tutte di grande qualità. In pochi anni sono state tutte chiuse perché "costavano troppo". Non si è capito che la formazione non è un costo ma un investimento. Di fronte a queste dismissioni mi sarei aspettato una difesa quantomeno “corporativa” da parte del personale, invece mi sono ritrovato – come presidente della scuola di formazione Life insieme a pochi altri a contrastare lo scempio che si stava compiendo. Oggi un manager è lasciato solo con se stesso. Ogni tanto si fanno delle convention : si riuniscono per un giorno duemila persone, il manager fa il suo show, e tutto rimane come prima. Concludendo: in primo luogo occorre ridurre l’orario di lavoro e incrementare la produttività. Invece si è proceduto con misure che hanno condotto all’attuale situazione: anziché ridurre l’orario di lavoro si è fatta la legge Biagi, poi si è eliminato l’IRAP, poi si è ridotto il cuneo fiscale per i privati, poi si è abolito l’articolo 18, poi si è fatto tutta la serie di leggi del Jobs Act con le quali sono state date alle aziende decine di miliardi per assumere persone di cui avevano sempre meno bisogno perché con il progresso tecnologico se oggi un lavoratore o imprenditore guadagna più soldi non è che compra operai, si compra robot ovviamente. Le conseguenze di queste azioni sono sotto gli occhi di tutti: miliardi dati alle aziende, migliaia di ore di scioperi, una conflittualità che è durata praticamente 15 anni. E tutto per aumentare l’occupazione meno di un punto: dal 57,4 al 58! Una insipienza iniziale, quasi un’azione criminale, perché la bassa produttività implorerà sempre dei sussidi. Adesso le aziende stanno cercando di appropriarsi anche di una parte del reddito di cittadinanza! Il che significa farsi pagare completamente gli investimenti dallo Stato senza essere aziende pubbliche. In questo c’è una responsabilità anche dei colleghi che hanno tenuto bordone ad una politica economica fallimentare.
Cosa può dirci del "regalo" del personal computer , messo a punto dalla Olivetti, dai governi italiani dell’epoca agli americani?
Potremmo definirlo "effetto ignoranza" : non capirono che il futuro era l’informatica, come adesso che abbiamo trasformato due fenomeni positivi come la globalizzazione e il progresso tecnologico in due grandi sciagure. Insomma non ci vogliamo rendere conto che le trasformazioni del lavoro sono funzione delle tecnologie che nel tempo siamo riusciti a costruire. Basterebbe, a questo proposito, ripercorrere la storia per renderci conto che solamente nei secoli XVIII e XIX il lavoro diviene un valore. Fino ad allora il lavoro era configurato solo come lavoro manuale, fatica fisica che sottraeva (si ricordi Cicerone) tempo all’otium creativo. È Adam Smith che ribalta completamente la concezione del lavoro affermando che il lavoro è la misura del valore di ogni cosa. Con Marx si va ancora oltre perché il lavoro diventa l’essenza dell’uomo: l’uomo è ciò che fa perché il lavoro è praticamente la costruzione della società e la costruzione del pianeta. Essendo essenza dell’uomo non può essere alienata perché ciò significherebbe vendere la sua essenza; da quel momento in poi il lavoro diventa un fatto di grande dignità. Per i cattolici era stato sempre importante perché con il lavoro si espiava il "peccato originario". Nel 1891 con la Rerum Novarum Leone XIII confermerà la concezione del lavoro come "espiazione". Con il XX secolo si entra in quello che Aris Accornero ha definito "il secolo del lavoro" perché mai, prima di allora, il lavoro ha conosciuto una simile apoteosi. Scrivere sul proprio biglietto da visita la propria professione è l’indicatore più evidente delle trasformazioni cui sopra si è fatto riferimento. Senza saperlo, in qualche modo si è marxisti quando sul biglietto da visita si scrive sociologo o si scrive avvocato. Significa che la mia essenza è quello che io faccio e naturalmente il lavoro è stato tutto. Perché fino all’avvento delle macchine di fine Settecento quasi tutto quello che esiste è stato fatto con le mani. San Pietro, quella montagna di pietra che si vede dalla finestra è stato fatto con le mani. È alla fine del Settecento che invece iniziano ad essere prodotte macchine meccaniche e poi qualche decennio dopo - un secolo dopo- macchine elettromeccaniche. E le macchine, man mano che arrivano, spossessano l’uomo del lavoro fisico, ripetitivo, pericoloso , del lavoro noioso perché le attività che vengono delegati alla macchina sono quelle che l’uomo non vuole fare perché appunto pericolose e noiose. Man mano che le macchine progrediscono spossessano l’uomo di attività sempre più sofisticate. Con le macchine digitali naturalmente comincia a spossessare l’uomo non solo delle attività fisiche ma anche delle attività intellettuali.

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